2021: la recessione è donna di Benedetta Rutigliano

14 Maggio 2021
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2021: la recessione è donna
di Benedetta Rutigliano

Lavoro, casa, figli, una triade che ha sovraccaricato le madri lavoratrici durante il lockdown, fino a pericolosi accumuli di stress o alla perdita del lavoro. Con un incremento vertiginoso delle violenze domestiche, più difficili da evitare, obbligati in casa

È marzo, il mese in cui cominciamo a sentirci rinnovati grazie ai primi segnali della primavera. Quella Primavera che il fiorentino Sandro Botticelli, alla fine del XV secolo, rappresentò con il regno di Venere secondo l’iconografia neoplatonica di Marsilio Ficino: un mondo femminile (pur se animato da Mercurio, Zefiro, Cupido) che pare idilliaco, ma che idilliaco non è mai stato. Proprio in questo mese, e quasi ovunque l’8 marzo, si celebra la Giornata Internazionale della Donna, adottata dai paesi europei nel 1911 (gli Stati Uniti fecero da apripista il 28 febbraio 1909) perché le donne potessero far sentire la propria voce, grazie a una proposta della  socialista tedesca Clara Zetkin durante la seconda Conferenza Internazionale delle Donne Socialiste tenutasi a Copenaghen nel 1910. Centoundici anni dopo questa giornata rinnova, invece che un idillio, la necessità per le donne di gridare a una parità di genere lontana. Con discriminazioni, violenze verbali e psicologiche, ma anche brutalmente fisiche, sin troppo vicine. Una situazione che la pandemia Covid-19 ha decisamente peggiorato, facendo battezzare questa nuova crisi she-cession (unendo il pronome she, lei in inglese, a quello di recession, recessione), in direzione opposta alla crisi del 2008 in cui si parlò di he-cession (he, lui in inglese).

Una retrocessione mondiale. Secondo Anita Bathia, vicedirettrice esecutiva di Un Women, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di empowerment femminile, la pandemia di Covid-19 “potrebbe spazzare via 25 anni di passi avanti nel campo dell’uguaglianza di genere”. A causa dell’impatto della crisi sanitaria, infatti, le ore che le donne dedicano alle faccende domestiche e all’assistenza familiare (dati già alti prima del coronavirus) stanno significativamente aumentando, con un “rischio reale di tornare agli stereotipi di genere degli anni ’50”, ha sottolineato Bathia alla BBC. Le chiusure a singhiozzo di asili e scuole hanno sovraccaricato le donne con figli, costrette a conciliare lavoro e istruzione, cura della casa, assistenza di genitori anziani, peggiorando quel lavoro extra e non retribuito che, anche al di là della situazione pandemica, va spesso a colmare la mancanza di servizi e welfare sociale, e di rado è riconosciuto come lavoro dalla società. Altro campanello di allarme segnalato dalla vicedirettrice di Un Women è che per via di questo carico aggiuntivo “molte donne in realtà non stanno tornando a lavorare” dopo i primi lockdown nazionali a livello globale. Solo nel mese di settembre 2020, “negli Stati Uniti, circa 865mila donne hanno abbandonato la forza lavoro rispetto a 200mila uomini”, racconta.

Sovraccariche e disoccupate. Anche in Italia gli effetti della pandemia vedono nel mirino soprattutto le donne, per lo più impiegate nel settore dei servizi e in lavori precari: secondo l’Istat, nel secondo trimestre del 2020 si contano 470mila occupate in meno rispetto allo stesso trimestre del 2019 (323mila in meno tra le impiegate con contratto a tempo determinato) e il tasso di occupazione femminile fra i 15 e i 64 anni si attesta intorno al 48,4%, contro il 66,6% di quello maschile. Questo quadro colloca l’Italia “al penultimo posto della graduatoria europea, appena sopra la Grecia”, sottolinea il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo a Rai News, “nonostante il livello di istruzione femminile sia sensibilmente maggiore rispetto a quello maschile”. Dati relativi a dicembre 2020 aggiungono che su 101 mila nuovi disoccupati, ben 99 mila sono donne (la cui inattività è particolarmente pronunciata nelle fasce di età 35-49, con un aumento del 10,4% e 25-34, con un aumento dell’8,8%). Anche qui, il tema di essere mamma lavoratrice è stato cruciale: secondo il report della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, lo stress
derivato dal sovraccarico del lavoro -non retribuito- di cura, per quasi 3 milioni di mamme lavoratrici con un figlio a carico con meno di 15 anni (30% delle occupate) è stato talmente elevato che molte di loro si sono trovate nella condizione non solo di rallentare la propria attività, ma di interromperla. Con altissimi rischi di povertà per le mamme single. Tutto ciò rema contro, tra l’altro, rispetto a un dato più che interessante: uno studio della Banca d’Italia, infatti, ha determinato che se il tasso di occupazione femminile raggiungesse il 60%, il PIL italiano salirebbe di 7 punti. A livello globale, secondo una ricerca del World Economic Forum, la maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro farebbe aumentare il PIL fino al 35%.

Una questione politica e culturale. Ma come incrementare l’occupazione femminile, con un sistema e una cultura ancora impregnati di discriminazioni? Difficile non effettuare rinunce sul lavoro con gli asili pubblici sempre intasati, scuole che a metà giornata terminano le lezioni, tutele minimali per le mamme lavoratrici autonome, congedi di paternità ancora troppo brevi. Per non dimenticare i divari relativi agli stipendi (in Italia parliamo del 20% di differenza, a parità di mansione, tra uomini e donne), gli stereotipi ancora da vincere, legati, per esempio, alla divisione dei lavori in casa, del tutto asimmetrica, o all’infondata incompatibilità tra la mente femminile e le materie scientifiche (quelle che più facilmente conducono a un’occupazione). Uno stereotipo, quest’ultimo, così diffuso a livello globale da portare alla fondazione di Woman Who Code, la cui mission è “motivare le donne a eccellere nelle carriere tecnologiche” (www.womenwhocode.com). L’intervento della politica aiuterebbe a scardinare questo sistema, con azioni concrete e mirate, ma la bozza del Recovery Fund, anche per quest’anno, non pare assegnare alla parità di genere le risorse necessarie a colmare questo gap persino inaspritosi per via delle conseguenze del virus.

Più parità ma più violenza. Nota di merito per i paesi scandinavi e del Nord Europa, dove i tassi di occupazione femminile sono più alti, anche se gli effetti del coronavirus sulla gestione famigliare hanno intaccato ogni sistema. Non tutti poi sono a conoscenza del “Nordic Paradox”, paradosso per cui l’ottima reputazione di paesi nordici come la Danimarca sui temi dell’uguaglianza di genere maschera una società con uno dei più alti livelli di stupri in Europa, dove esiste un’impunità endemica per gli stupratori, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International di marzo 2019 (per il fatto che a definire lo stupro ci sia solo l’elemento della violenza e non quello del consenso). La violenza domestica è aumentata ovunque con la convivenza obbligata dettata dai lockdown, e in Danimarca, come in ogni paese nordico, ogni comune ha dovuto provvedere a incrementare le case rifugio per le donne soggette a violenza, per le maggiori richieste e per garantire sicurezza e distanziamento in questi luoghi. Altra mossa indispensabile è stata quella di introdurre nuovi metodi per allertare la polizia, anche tramite mail.

La casa come trappola. Una situazione che certamente ha toccato l’Europa tutta, con un incremento di chiamate per violenza domestica dal 20 al 40%, da febbraio 2020. A livello mondiale, poi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità registra una percentuale di aumento delle violenze domestiche del 60%. L’Italia non è estranea a questa situazione: a ridosso del 25 novembre 2020, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’associazione ActionAid ha diffuso un monitoraggio sul fenomeno della violenza, sui fondi destinati al settore (che pur se disponibili spesso son bloccati per via della burocrazia), sulla situazione nelle Regioni (dove la presenza dei Centri Antiviolenza è disomogenea, così come le erogazioni): per questo ha istituito il fondo #Closed4women con uno stanziamento iniziale di 40 mila euro per aiutare nel concreto l’operatività dei centri antiviolenza, a cui le donne sono indirizzate dal 1522, numero di richiesta aiuto istituito anni fa dalle Pari Opportunità. Dopo un iniziale crollo di telefonate al 1522 all’inizio del lockdown, tra marzo e giugno 2020 queste sono più che raddoppiate rispetto al 2019 con 15.280 richieste (+119,6%). Pur se poco se ne è parlato, il 1522 offre anche un servizio anonimo di chat così che la persona in difficoltà possa chiedere aiuto scrivendo un messaggio, nell’impossibilità di uscire per chiamare (www.1522.eu).

Supporto con un click. Poche strutture hanno avuto la possibilità di adeguarsi alla nuova situazione mettendo a disposizione strumenti digitali per chiedere aiuto, secondo l’Istat. Abbiamo interpellato Margherita Fioruzzi, cofondatrice e CEO di Mama Chat assieme a Marco Menconi, presidente della prima realtà no profit del digitale in Europa per la promozione dell’empowerment femminile e dei diritti delle donne, una realtà che lotta contro la violenza sulle donne, per l’accesso senza barriere ai servizi di supporto psicologico, per la promozione del benessere mentale a ogni età. Psicologa con un master a Dublino in disuguaglianze sociali lei, ingegnere e digital expert (con un’esperienza in Google) lui, i due nel 2017 danno vita a Mama Chat, che in soli tre anni ha raggiunto, grazie alla professionalità offerta e all’accessibilità, più di 10.000 donne in difficoltà con età media dai 25 ai 44 anni. Questo tramite uno sportello di aiuto online che funziona, senza bisogno di iscrizione, con una semplice chat cui si accede da smartphone, tablet o pc sul sito https://mamachat.org, e un servizio low cost di video-terapie. Dall’altra parte del monitor un team di psicologi pronti ad ascoltare a indirizzare verso i servizi territoriali più idonei. “Con il primo lockdown c’è stata un’iniziale scomparsa di richieste d’aiuto da parte di vittime di violenza che ci ha molto allarmate. Dopo le prime due settimane ci siamo immedesimate nelle donne che, costrette tra quattro mura, avevano ancora meno chance per chiedere aiuto”, racconta la fondatrice di Mama Chat. “Abbiamo puntato tutto sulla comunicazione social per dare qualche suggerimento utile, come quello di uscire a buttare la spazzatura per poter esser sole e chiedere aiuto: ha funzionato, da lì a poco sono riprese le richieste anche verso i centri antiviolenza. È fondamentale che i servizi a disposizione si rendano accessibili”. La Fioruzzi parla di un aumento di richieste di aiuto, nell’aprile scorso, quintuplicato rispetto ai mesi precedenti, con 300 denunce via chat, per il 2020, proprio per violenza domestica. “In una relazione violenta son sempre presenti violenza psicologica, economica, a volte sessuale: di quest’ultima si parla poco perché non si è abituati a definirlo stupro se questo è perpetrato all’interno di una relazione, ma il sesso tra partner, se è senza consenso o usato come arma, è stupro tanto quanto un abuso per strada da parte di uno sconosciuto”, precisa la psicologa. Con lei parliamo degli interventi auspicabili per poter combattere adeguatamente la disuguaglianza di genere: “Il Recovery Fund dovrebbe dedicare più spazio al tema: più investimenti per l’occupazione femminile e per il sostegno alla maternità costituirebbero già un segnale di attenzione importante. Senza investimenti anche la violenza domestica non diminuirà. È incredibile quanto si potrebbe aiutare il mondo femminile se solo si offrissero pari opportunità, per raggiungere indipendenza economica, per portare avanti progetti lavorativi e personali che non mettano nelle condizioni di subire il controllo da parte di un uomo. Sono tutte misure davvero urgenti”. Senz’altro lo sono, in modo diverso, a livello mondiale. Ora più che mai, se vogliamo fermare questa vertiginosa recessione.

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