SONO UN ITALIANO? di Monica Taddei

20 Febbraio 2025
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SONO UN ITALIANO?
di Monica Taddei

Sembra avere dubbi il trentunenne ingegnere di Trieste Andrea Covacich che, da due anni, ha scelto di vivere a Odense nell’isola di Fionia, di cui vi abbiamo già illustrato le tante bellezze in altri numeri della nostra rivista.

Andrea arriva in Danimarca dopo un’ esperienza lavorativa in Islanda come ingegnere civile. Si definisce un italiano quasi danese, rifiuta l’etichetta dell’italiano all’estero e le scelte che lo hanno portato a vivere fuori dall’Italia ne fanno a pieno titolo un expat.

L’ingegner Covacich rappresenta la voce di un popolo di giovani, sempre meno silenziosi, che fanno i bagagli e lasciano il loro paese senza l’aura triste e ieratica dell’emigrante. Hanno abbandonato i bauli dei loro avi in soffitta perché viaggiano leggeri e nei loro trolleys hanno almeno una laurea triennale, una laurea specialistica, un master e diverse esperienze lavorative (troppo spesso malpagate e regolarizzate da contratti in cui rischi di essere un apprendista ad libitum o una figura junior a vita).

Perché partono, dunque?
Perché meritano di veder riconosciuto tutto questo bagaglio, perché esso possa diventare una possibilità per emergere professionalmente e non un fardello che sembra non essere mai abbastanza pesante per raggiungere la tanto agognata assunzione. E perché ormai questa generazione è consapevole del fatto di meritare tale riconoscimento.

E l’Italia cosa fa? Il Bel Paese sembra ancora dibattersi –come il pendolo di Schopenauer– tra il dolore dell’emigrazione e la noia di dover rinunciare alla propria comfort zone mutando abitudini alimentari, sociali, emotive. Eppure, già nel 1981 il mai dimenticato Massimo Troisi, in “Ricomincio da tre”, si batteva –con l’arma della sagace ironia che lo ha contraddistinto per tutta la sua breve vita– per confutare il teorema “napoletano=emigrante”. Quell’Italia. che si preparava a vivere gli anni della Milano da bere e dell’edonismo reaganiano, la ritroviamo intatta, con un lifting di facciata, in un’altra fortunata pellicola del 2016 a firma Checco Zalone dal titolo “Quo Vado” in cui si esprime –anche con una buona dose di cinismo– tutto l’italico attaccamento per il posto fisso*.

Vien fatto di chiedersi cosa sia cambiato nel mercato del lavoro italiano in questo lasso di tempo; se ascoltiamo Andrea, per quella che è stata la sua esperienza lavorativa in Italia, la risposta è “molto poco”.

Qual è stato il tuo primo impatto con il mondo del lavoro in Italia?
Traumatico. Sono stato quasi costretto a lavorare inizialmente con la ritenuta d’acconto, in attesa di sostenere l’esame di stato abilitante la professione dell’ingegnere. Successivamente ho dovuto aprire partita iva, pur lavorando solo per quell’azienda; avevo una grossa mole di lavoro, senza garanzie né benefit che, invece, ha il lavoratore dipendente. Avevo una grande motivazione, quella di farmi le ossa, di imparare il più possibile. Un anno e mezzo che ricordo come molto stressante in cui ho ingrossato le fila delle finte partite iva.

Quanto conta, secondo te, il fatto che non vivi a Copenaghen né ad Århus ma nella fiabesca Odense?
Non ho mai vissuto in nessuna delle due città, anche se le conosco. Odense è certo meno cara, situata in una posizione assai strategica rispetto ad entrambi i luoghi e agli aeroporti danesi. Inoltre, Odense fa, più o meno, la popolazione di Trieste, la mia città d’origine, e questo mi fa sentire a mio agio.

Sei un italiano che non si lamenta del clima danese, una rarità quasi assoluta. Essere triestino ti ha facilitato?
Forse si, a Trieste c’è la Bora, anche qui c’è molto vento e poi io soffro molto il caldo; le torride estati italiane non mi mancano per niente con i loro 35/40 gradi. Il clima danese non mi pesa, anche se gli inverni sono abbastanza lunghi, freddi e bui. In ogni caso per me, al primo posto, c’è la semplicità della vita in Danimarca prima che il clima. L’unica cosa che mi manca veramente qui sono le montagne, dove salivo sia d’estate che d’inverno con i miei familiari e i miei amici.

L’avere una compagna danese può essere considerata un jolly nella lotta contro la nostalgia?
Si, molto probabilmente è così; lavorando per un’azienda italiana che si occupa di costruzioni, sono a contatto con altri italiani e non tutti hanno legami qui in Danimarca, così la nostalgia pesa di più. Io, invece, ho la mia ragazza e la sua famiglia, per me è più semplice da questo punto di vista. I miei genitori e gli amici sono in Italia, perciò cerco di tornare spesso. Però io in Danimarca mi sento veramente a casa, al punto di pianificare la mia vita qui: metter su famiglia, avere dei figli, prendere casa ed è qualcosa che in Italia non ho mai pensato di fare, sprovvisto com’ero di sicurezza e di stabilità economica che invece ho trovato qui.

Quando torni in Italia cosa fai? Ma soprattutto, rientri con il “pacco da casa”?
Cerco di rientrare almeno una volta al mese, magari per un weekend lungo, per vedere i miei genitori e tutti gli amici e ridurre la nostalgia di casa; e torno sempre con un bagaglio maggiorato di 4, 5 chili perché la cultura del cibo che c’è in Italia in Danimarca non c’è. Quindi, non solo mi porto il pacco da casa, ma talvolta il pacco me lo spediscono i miei familiari.

Se dovessi indirizzare un venticinquenne italiano verso la tua stessa scelta, cosa gli diresti?
A fine università gli direi di fare subito i bagagli e partire, perché andare all’estero ti apre la mente, ti arricchisce culturalmente e ti permette di fare esperienze che potrebbero definire il tuo futuro. Non sono d’accordo con chi ritiene che gli italiani all’estero siano una sorta di traditori perché sono scappati dal paese! Se si ha la possibilità di farlo, bisogna partire per capire che esistono altre opportunità nella vita. La mia, per esempio, è arrivata come un fulmine a ciel sereno: mi avevano proposto l’Islanda e, pur ritenendola una scelta difficile (l’Islanda è un paese molto isolato), non ci ho pensato su e ho accettato. Da lì sono arrivato in Danimarca, e oggi non potrei essere più felice di così.

Avendo ora una visione molto più ampia dell’impegno lavorativo in entrambi i paesi, ti sentiresti di proporre soluzioni per migliorare il mercato italiano?
Lavorativamente, io rappresento ancora la via di mezzo, perché sono dipendente di un’azienda italiana ma con contratto locale; nell’azienda c’è la mentalità del lavoro italiano ma in due anni e mezzo ho potuto constatare che esistono grosse differenze tra i due mercati. La più grande è che in Danimarca c’è un grandissimo equilibrio tra la tutela dei lavoratori e la flessibilità per l’impresa. Le imprese hanno la possibilità di adottare contratti di lavoro temporanei, le regole per i licenziamenti sono più flessibili ma esiste un’elevatissima sicurezza sociale; le indennità di disoccupazione, infatti, sono elevate, le politiche del reinserimento nel mondo del lavoro mirano all’immediato. Quello danese è un mercato dinamico, è semplice trovare lavoro, abbiamo un tasso di disoccupazione tra i più bassi d’Europa. C’è un grande rispetto per le persone, che lavorano con tranquillità e con meno stress confronto all’Italia.

L’idea di un futuro sereno per Andrea ha i colori della bandiera danese.
Ed è un futuro che si declina al presente.

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