La fuga dei giovani dall’Italia: così si è rotto il patto generazionale di Silvia De Bernardin

21 Luglio 2025
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La fuga dei giovani dall’Italia: così si è rotto il patto generazionale
di Silvia De Bernardin

L’emigrazione dei ragazzi italiani all’estero (anche in Danimarca) è diventata ormai strutturale: tra nuove visioni del mondo e carenze del sistema-Paese, l’analisi di un fenomeno che rischia di compromettere il futuro dell’Italia

È un flusso ormai consolidato e in costante crescita da anni: i giovani lasciano sempre più numerosi l’Italia in cerca di nuove opportunità in altri Paesi – tra i quali proprio la Danimarca. Lo hanno certificato anche i dati diffusi recentemente dall’Istat, che nel 2024 ha registrato un boom di emigrazioni verso l’estero: sono state 191mila, il 20,5% in più rispetto al 2023. Di queste, ben 156mila hanno riguardato cittadini italiani espatriati, un dato in crescita addirittura del +36,5%. Molti di loro sono, per l’appunto, giovani. Dal 2011 al 2023 – ha calcolato la Fondazione Nord Est – gli italiani tra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato il Paese sono stati 550mila: al netto dei rientri, il dato è pari a 377mila ragazzi, un capitale umano stimato in 134 miliardi di euro di valore.
Ma cosa c’è dietro questo fenomeno diventato ormai strutturale? Quali sono i rischi che l’Italia corre dal punto di vista sociale ed economico? E, soprattutto, come si inverte la tendenza per far sì che quella di creare il proprio futuro all’estero sia una legittima opportunità e non una scelta obbligata?
Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore dell’annuale “Rapporto Giovani” dell’Istituto G. Toniolo.

Professor Rosina, perché i giovani italiani lasciano sempre più spesso l’Italia?
Le nuove generazioni pensano al proprio spazio strategico allargandolo a tutto il Pianeta: i ragazzi vanno là dove individuano le opportunità più in linea con l’esperienza che desiderano fare. Non a caso si usa il termine “expat”, che indica una mobilità internazionale diversa da quella passata, quando si toglievano radici in un posto per metterle definitivamente in un altro. Oggi i giovani si sentono cittadini del mondo, si pensano come nodi di reti mobili. È chiaro, tuttavia, che lì dove i territori sono più deboli e offrono meno opportunità, sono più incentivati a spostarsi. Questa è la condizione dell’Italia: i dati statistici dicono che l’occupazione femminile è tra le più basse in Europa, che i salari sono bassi, che le possibilità di carriera e di trovare piena valorizzazione delle proprie aspettative sono minori. Ed ecco che molti giovani italiani cercano opportunità altrove. Al di là dei dati, però, c’è un intero sistema-Paese che dà messaggi di non investimento sulle nuove generazioni.

In che senso?
Da un lato c’è la forte propensione delle famiglie italiane ad avere pochi figli e a investire fortemente su di loro in chiave privata, il che finisce per frenare la mobilità sociale. Dall’altra, a livello collettivo si investe meno della media europea in formazione professionale, politiche attive del lavoro, politiche abitative, ricerca, sviluppo e innovazione. Non dimentichiamo che l’Italia ha un debito pubblico molto alto: invece che investire sui giovani, per proteggere il presente continuiamo a indebitare chi verrà dopo. È un patto generazionale che non funziona: è soprattutto questo mancato investimento a spingere i giovani altrove.

Lo scorso anno – dice sempre l’Istat – il tasso di fecondità in Italia ha raggiunto il minimo storico, con 1,18 figli per donna e appena 370mila nati: che relazione c’è con i dati sull’emigrazione?
L’Italia si trova a soffrire, più di altri Paesi, di un circolo vizioso di degiovanimento quantitativo e qualitativo. Negli ultimi 40 anni la transizione demografica ha portato il tasso di fecondità ben al di sotto della media dei 2 figli per donna. Questo ha prodotto un quadro nel quale i giovani sono di meno – una novità assoluta – e contano di meno, anche a livello politico. La “massa critica” che potrebbero costituire portando nuove istanze e nuove visioni all’interno della società, delle aziende e della politica si indebolisce.

La loro voce conta sempre meno, hanno difficoltà a trovare un ruolo qualificato e rilevante, affrontano percorsi di formazione e lavorativi deboli, che li portano a dipendere più a lungo dai genitori.

Cosa che in Danimarca, per esempio, non accade.
In Danimarca prima dei 25 anni i giovani sono autonomi e iniziano già a fare esperienze di indipendenza e di formazione delle unioni, possono contare su politiche familiari, abitative, di conciliazione vita-lavoro e su condizioni occupazionali e di reddito più solide, che permettono a coloro che lo desiderano di avere figli prima dei 30 anni. In Italia, invece, i percorsi di formazione più deboli, le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia, la mancanza di servizi come nidi e congedi di paternità prolungati, fanno sì che i giovani

arrivino ben oltre i 30 anni con salari più bassi e precari, maggiori difficoltà a sostenere i costi della vita e dell’abitazione e quindi a posticipare la scelta di avere figli o a rinunciarvi del tutto. In questo modo, la fecondità diminuisce ulteriormente: un circolo vizioso difficile da interrompere.

Mettendo insieme tutti questi fattori, quali sono i rischi ai quali si va incontro?
Oggi in Italia i trentenni sono un terzo in meno rispetto ai cinquantenni: vuol dire che si va verso una riduzione di circa un terzo del potenziale della forza lavoro del Paese. Al contempo, cresce la popolazione anziana over 65 e, conseguentemente, la domanda di spesa pubblica per pensioni e assistenza socio-sanitaria. Se questo squilibrio porterà a destinare sempre più risorse verso pensioni, cura e assistenza degli anziani e a diminuire il già scarso investimento collettivo sulle nuove generazioni, avremo non solo meno giovani, ma anche giovani meno preparati e innovativi. Quelli che, invece, avranno maggiori competenze continueranno a cercare opportunità in altri Paesi. Il rischio è, dunque, una perdita ulteriore di competitività e uno scivolamento verso squilibri e disuguaglianze che progressivamente si accentueranno.

Come si esce da questa situazione?
L’unico modo è compensare la riduzione quantitativa dei giovani con un potenziamento qualitativo, investendo sulla formazione, sul rafforzamento della transizione scuola-lavoro e sulla valorizzazione dei giovani all’interno delle aziende e nella società.

Se si portassero occupazione e investimenti sulle nuove generazioni e sulla componente femminile ai livelli medi degli altri Paesi europei o agli alti livelli di quelli scandinavi, si avrebbe una forte spinta alla crescita e allo sviluppo.
Solamente così si può ridurre la fuga dei giovani verso l’estero. In questo momento l’Italia è a un bivio, i margini per intervenire ci sono ancora.

“Ai giovani italiani manca la speranza”, ha detto lei più volte. Come la si può restituire loro perché non vivano l’andare all’estero come una scelta obbligata?
Serve un nuovo patto generazionale che parta dalla consapevolezza delle sfide che il Paese ha davanti e delle sue fragilità.

Per rispondere agli squilibri crescenti è necessario investire maggiormente sui giovani lanciando loro un messaggio chiaro, con politiche per rafforzare la formazione, creare opportunità di promozione del capitale umano, offrire salari adeguati, perché vedano che anche in Italia ci sono opportunità per realizzare ciò che desiderano.

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