Vivere Altrove

25 Giugno 2020
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Vivere Altrove
Pensieri e divagazioni di italiani in Danimarca ai tempi del coronavirus

Monica, di Gallarate (VA)
Personal Assistant Metro Service, Copenaghen

Nonostante questa crisi mi reputo fortunata. In Danimarca stiamo abbastanza bene, malgrado le restrizioni e l’insicurezza di fondo. Mi sento tutelata, la situazione è sotto controllo. In Italia la mia famiglia e i miei amici sono da due mesi in stato di “arresti domiciliari”. Ma anche stando in casa, non c’è nessuna garanzia. Sono preoccupata per i miei parenti anziani, soprattutto per mia zia, che vive con la figlia che lavora al supermercato, ogni giorno a contatto con tante persone.
Fortunatamente “stanno tutti bene” – come si suol dire. Questo significa che non ci sono deceduti, o contagiati nella mia famiglia e tra i miei amici, quanto stiano bene non lo so. Ma ci sono. Tengono duro.
Ci sentiamo più spesso ora, su Skype o WhatsApp – grazie alla tecnologia che ci fa sentire un po’ più vicini! Ieri sera ho letto il libro della buonanotte con il mio nipotino. L’altro giorno ho fatto il giro virtuale del mio giardino e ho fatto vedere a mio papà come è cresciuto l’albero che piantò tanti anni fa.
Spero di poter tornare presto in Italia, a riabbracciare tutti i miei cari e a godermi “i miei posti”. E allora non darò più niente e nessuno per scontato.

Achille, di Mogoro (OR)
Titolare del Ristorante San Giorgio, Copenaghen
Il covid19 ha condannato noi ristoratori a vivere nell’incertezza, le riaperture si profilano sempre più lontane e con modalità estreme, di cui non conosciamo ancora le condizioni. Alcuni fanno riferimento al modello cinese, ovvero ridurre i posti del 50 o addirittura 60 %, con precauzioni e disinfezioni continue, con il personale di cucina e di sala munito di mascherine e indumenti da cambiare spesso, trasformando tutto in un putiferio. Operare in queste condizioni procurerà un forte stress e mentre molti miei colleghi pensano al post covid come ad un’occasione di cambiamento, io credo invece che chi ha sempre ben lavorato con delle idee concrete e solide deve solo continuare a farlo e se possibile sempre meglio.
Gastronomicamente parlando, occorre riaprire i cassetti nei quali sono custoditi sensazioni e ricordi del passato che devono darci la spinta verso il futuro. Non credo in grossi cambiamenti, penso piuttosto che questa occasione possa servire a ritrovare entusiasmo, attenzione alle materie prime, semplicità, perché in questo secondo è il futuro. Riappropriarci delle cose che sono dentro di noi per riproporle alle nuove generazioni, evitando a tutti i costi che il patrimonio che la nostra cucina rappresenta vada perduto.

 


Alessandra, di Vigevano (PV)

IT Projekt Manager, Region Hovedstaden
Il lockdown in Italia ha costretto molte famiglie a separarsi, non si poteva andare a trovare i nonni, i propri genitori. Ho letto sui social della frustrazione di molti e mi ha ricordato quello che proviamo noi italiani all’estero da anni, quando ci sentiamo impotenti soprattutto se succede qualcosa di grave. Immagino figli e nipoti che stavano al telefono con i nonni, sapendo che andavano a fare la spesa, dicendogli di mettere la mascherina, ma con il timore che venissero contagiati per andare a comprare il prosciutto. Sia qui che in Italia si è scoperto il telelavoro, e alcuni lavoravano da casa con i bambini. Molti hanno organizzato turni casalinghi tra moglie e marito, soprattutto in Danimarca, dove è normale che entrambi lavorino. Voglio sperare che questo nuovo modo di lavorare abbia aperto gli occhi a tanti, soprattutto a certi capi non proprio progressisti. Il rendimento non è proporzionale alla presenza fisica in ufficio, anzi, si risparmiano ore di trasporto, si evita lo stress.

 

Irene, di Gravina di Puglia (BA)
Operatore socio-sanitario, Gladsaxe
Lavorando nella sanità ho avuto non poche difficoltà e credo che i dispositivi di protezione per noi addetti ai lavori siano stati introdotti a rilento. Per l’uso delle mascherine ad esempio io stessa ho dovuto insistere con i miei superiori visto che all’inizio le regole del Ministero erano che la mascherina dovevamo indossarla solo in presenza di pazienti con sintomi. Solo successivamente si è capito che il rischio erano anche gli asintomatici e che quindi era meglio usarle. Ma il fatto è che in realtà non ce n’erano abbastanza e questo ha fatto sì che nel nostro comune diverse infermiere siano state contagiate e che alcuni pazienti siano deceduti. Poi, finalmente le cose sono cambiate ed ora vengono sostituite regolarmente. Adesso ad esempio possiamo avere il tampone già alla comparsa di lievi sintomi, o se siamo stati a contatto con pazienti positivi. Qui, comunque, non è come in Italia e la mascherina non viene considerata una misura obbligatoria.

 

Cesare, di Bari
Titolare della Farmacia Vejlby, Risskov
Come tutti all’inizio ho seguito gli eventi del Coronavirus dai primi casi in Cina, ai primi comunicati e avvisaglie, all’allarme del WHO.
Poi, all’improvviso l’esplosione di casi in Italia. Le prime reazioni, qui nell’ambiente medico/scientifico, erano del tipo: qui non arriva, a noi non succede ecc. Seguendo l’evoluzione in Italia e rimanendo in contatto con amici e colleghi, ho capito presto che questa volta si faceva sul serio. Ho subito imposto le prime limitazioni e regole di comportamento al mio personale ed ai clienti, non senza rimostranze più o meno velate.
Nel giro di pochi giorni, con i quotidiani aggiornamenti del governo, ci si è resi conto della gravità della situazione e quel farmacista italiano, che già aveva imposto regole sul distanziamento sociale, disinfezione, schermi per il personale e regole sull’afflusso dei clienti, comincia a ricevere chiamate e messaggi da ordini professionali, colleghi e personale anche di altre farmacie, per avere un consiglio. Oggi credo di poter dire con orgoglio che la mia farmacia, a guida italiana, viene additata come una delle farmacie guida, in tempi di COVID 19, ma non solo.

Emma, di Alghero (SS)
Scrittrice e studiosa di storia delle donne
In qualità di studiosa di letteratura femminile e di autrice, ho organizzato, in concomitanza con la pandemia, corsi intensivi di scrittura emotiva con donne italiane espatriate in tutti i continenti.
In una versione contemporanea e virtuale del “Decameron”, ho invitato loro a condividere via skype racconti a tema vario, all’interno di gruppi eterogenei composti da studentesse, lavoratrici, pensionate, madri, mogli e single, inserite in vari modelli sociali che esulano dalla sola famiglia tradizionale. Ogni giorno, alla stessa ora, le mie corsiste si collegano, ritagliando uno spazio tutto per sé, parafrasando Virginia Woolf, in cui scrivere e leggere.
È emerso – e sta emergendo – un universo umano, sociale e culturale di rara bellezza, fondato sul desiderio di crescita nella condivisione e sulla coraggiosa voglia di superare le difficoltà in forma positiva e propositiva anche attraverso il potere salvifico della parola, quella parola femmina, quella che tesse la memoria e costruisce la storia attraverso il racconto, da tramandare di generazione in generazione.

Silvia, di Milano
Responsabile delle operazioni Ulveman e Børsting
Da quando il mondo è andato sottosopra a causa del Covid19 ho sentito molto la  mancanza, la nostalgia e la preoccupazione per la mia famiglia che vive a  Milano, zona estremamente colpita. Per fortuna stanno tutti bene ma la loro vita è completamente stravolta e anche se con i miei genitori e mia sorella ci siamo sempre videochiamati, il grande sconforto e solitudine che spesso avverto in loro mi intristisce e mi lascia con un senso di impotenza.
Ogni giorno che passa senza sapere quando li potrò rivedere lo sento come un giorno” rubato”. Penso ai bambini, a quanto abbiamo lavorato per fargli mantenere un rapporto forte con la
famiglia italiana, sentire il legame con il posto e rafforzare la lingua.
Mi preoccupa che la lontananza abbia conseguenze sul loro senso di appartenenza e sulla naturalezza con cui si relazionano con la mia famiglia, perché alla loro età le cose accadono molto
velocemente. Ho visto l’Italia in ginocchio per terremoti, ponti crollati, attacchi terroristici e molto altro. Ogni volta gli italiani hanno saputo rialzare la testa e andare avanti con coraggio e forza. Il sentimento che mi riempie il cuore è di grandissimo orgoglio per questa Italia, che anche in ginocchio sa insegnare qualcosa agli altri Paesi, e penso che presto sarà di nuovo in piedi anche stavolta.

 

Paolo, di Pescara
Musicista e compositore
Vivere lontano dal mio paese ha sempre suscitato in me sentimenti ambivalenti: la gioia di percorsi alternativi, culture diverse, ma anche la malinconia per la mancanza di alcune delle caratteristiche tipiche dell’Italia: energia, contraddizioni, imprevedibilità, genialità, luce, cucina, caos … in generale, un modo di vivere più spontaneo. Ora, in un momento così difficile e inquietante, nel vedere i miei connazionali afflitti dalla drammatica emergenza sanitaria e obbligati alla quarantena, ho provato un amore profondo e viscerale per il mio paese. Un fermento emotivo, uno slancio di empatia e solidarietà, manifestatosi con il linguaggio che più mi appartiene, la musica.
A dispetto del senso d’impotenza è stato inevitabile immergermi a capofitto nell’esplorazione al pianoforte di un repertorio legato alla gloriosa epoca del barocco italiano, dando così vita al mio 16º album: I Clavicembalisti Italiani.
Il disco, realizzato in tempo record, è accessibile online e idealmente dedicato a tutto il popolo italiano. Un gesto simbolico il mio, un umile contributo ispirato da un autentico desiderio di vicinanza nei confronti degli Italiani: irradiare nell’etere vibrazioni d’amore veicolate dalla musica, nell’intento di donare conforto, sollievo e speranza.

Anna, di Mariano Comense (CO)
Export Manager settore arredamento
Da sempre ho considerato il mio essere internazionale, sia nella vita privata che sul lavoro, come un motivo di orgoglio, un’emancipazione dalla realtà locale dove sono nata e cresciuta, un sinonimo di bellezza e ricchezza culturale. Il coronavirus ha saputo mostrarmi l’altra faccia della medaglia.
In febbraio, allo scoppio della pandemia, mio marito ed io, italiani residenti in Danimarca, ci troviamo temporaneamente in Spagna per seguire un progetto. Un figlio in Danimarca, una figlia in Scozia, il resto della famiglia e gli amici di una vita tutti in Lombardia, così come clienti e colleghi sparsi per l’Europa. Tutto ciò ha fatto sì che io
vivessi gli ultimi mesi con una particolare intensità mista a preoccupazione, mesi durante i quali ho speso moltissime ore monitorando la situazione, e tenendo viva la comunicazione con le mie relazioni private e professionali nel mondo. Di natura sono una persona ottimista, ma non è stato facile mantenere il sorriso e i nervi  saldi.
A metà marzo, il viaggio in auto dalla Spagna verso la Danimarca mi ha mostrato un’Europa ferita, negli autogrill tedeschi quasi deserti e con l’aria impregnata di odore di alcool, o nel controllo in frontiera, che ormai era solo un ricordo di ragazza.
Mi auguro che la mia Italia così ferita, ed il resto d’Europa, possano al più presto tornare belle e fiorenti come sono nel mio cuore.

 

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