Dalla terra al vino – intervista a Marco Bartone a cura di Luca Morelli

26 Febbraio 2023
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Dalla terra al vino – intervista a Marco Bartone
a cura di Luca Morelli

Marco, classe 1993, è da poco arrivato a Copenaghen per lavorare come head sommelier a Bæst, famoso ristorante di Nørrebro. A nemmeno trent’anni ha già lavorato in diversi continenti, sempre mosso dalla passione viscerale per il vino e la scoperta.
Sfruttiamo un venerdì di ottobre, insolitamente caldo e soleggiato, per fare un giro a Refshaleøen, tra calici, start-up e laboratori.

Cosa ti ha portato qui?
“La voglia di conoscere, la stessa voglia che mi ha portato a viaggiare nel mondo a conoscere il vino. Qua, anche se è presto per dare un giudizio, mi piace il rispetto, il dialogo calmo dove le parole sono ponderate; mi piace che non c’è l’ansia da prestazione perché ognuno ha spazio per esprimersi”.

Com’è stata la tua infanzia?
“È stata un’infanzia felice. Le mie radici sono al sud e contadine, entrambe le famiglie dei miei sono calabresi ma io ho vissuto fino ai 18 anni a Siracusa. Il rapporto con la terra, gli animali, l’orto, la vigna e ciò che sono i loro prodotti sono stati, sin da bambino, la mia più grande forma di gioia e libertà. Una volta mia nonna litigò con mia mamma, che forse è quella che di più mi ha trasmesso l’amore per la vita agricola, perché voleva che a sei anni bevessi del vino Gaglioppo, contadino, chiuso con tappo a corona, fatto da loro e fermentato naturalmente. Con lo stesso ci puoi condire l’insalata quattro ore dopo averlo aperto. Era una bevanda viva, e così deve essere”.

Non è facile farti parlare di te, metti sempre l’enfasi sul mondo enologico, ma ci torniamo. Tu che sogni avevi da bambino?
“Ma io sono sempre stato affascinato dalla campagna di mia nonna, in cui c’erano i fichi, i maiali, le galline, i pomodori. Ed io ero affascinato da come lei riuscisse a darci pranzi meravigliosi con qualcosa di personale, agricolo e semplice, senza prezzo e senza tempo”.

Penso che queste siano cose che si iniziano a pensare durante l’adolescenza, tu questo lo facevi già intorno ai 7/8 anni…
“La generazione dei miei genitori stigmatizzava un po’ la vita di campagna, a me piaceva invece il senso di libertà che mi dava tutti i fine settimana quando andavo a visitare l’orto di mia nonna, nonostante un timore reverenziale per gli animali. Poi ho realizzato perché mi piacesse: la terra ti accetta a prescindere, non ha bisogno che tu dica chi sei; vai lì e ti vuol bene”.

Sai che il tuo accento non lascia percepire le tue origini?
“Sono stato un po’ a Milano, poi sono partito presto: a 19 anni ero a Londra a lavorare e studiare per diventare sommelier. Poi sono stato al ristorante stellato “Del Cambio” a Torino, ma è un ambiente che non fa per me; poi Malta, Trentino, Australia, Emirati Arabi”.

Le domande sulla sua vita privata da qui in poi ricevono solo risposte stanche; quindi, è ora di passare a quelle che Marco chiama cose serie:
“Il vino è il prodotto agricolo che è la simbiosi perfetta tra uomo e territorio. Deve essere: buono, bello e genuino. Se ci pensi è un alimento, ma non c’è l’etichetta dietro che ti dice cosa c’è dentro. Spesso è bello e buono, quante volte è genuino? Serve un tipo di agricoltura che sia rispettosa, così come il processo di trasformazione. Per farlo è necessario amore per il vino e custodia del territorio”.

Stai parlando di agricoltura biodinamica, vero? Che cos’è?
“La rappresentazione scientifica o teorica di quello che i contadini di tutto il mondo hanno sempre fatto: guardare la luna, ascoltare la pianta: non c’è bisogno di dare la medicina al bambino per un mal di testa, magari è stata solo una giornata più stressante”.

La filosofia mi sembra chiara
“Un altro problema di chi fa vino per me è che manca il senso di comunità. Bisogna capire che il mondo non siamo noi, ne facciamo parte, e questo è possibile grazie all’osservazione pratica di ciò che c’è intorno.
E un altro problema, invece, è come viene bevuto: nessuno deve dire cosa ci si deve sentire dentro un bicchiere. Un grandissimo maestro, Sandro Sangiorgi, dice che in degustazione è necessaria la libertà di associazione; e se qualcuno dice che nel calice ci sente il sole, così è! La persona che c’è dietro al vino, la persona che c’è davanti che lo beve, il contesto, il momento, le persone intorno a te. Questo è determinante, non l’etichetta o il vitigno”.
Ho citato Sangiorgi perché, anche se non l’ho mai incontrato, è la persona che ha determinato il modo di vedere il vino ed il mondo; il suo libro “Manteniamoci giovani” su Emidio Pepe è illuminante. Altre letture che mi hanno forgiato sono “Il vino tra cielo e terra” di Nicolas Yoly, produttore biodinamico della Loira e “La politica della bellezza” di J. Hillman, che non c’entra nulla col vino. Tutti rigorosamente in italiano, devo capire bene quando leggo”.

In Italia ci vuoi tornare?
“Ora penso a stare qui almeno per tre anni. Ci ho già provato nel 2018, non è andata benissimo. Nella nostra bandiera, il verde rappresenta la speranza; per me è quella di poter tornare. Sento di vivere da esiliato – starne fuori è una mia scelta, vero, ma non potrei dare il mio nella terra che mi ha dato i natali. Emotivamente mi sentirei troppo a disagio. Mi piace leggere di psicanalisi, che, come il vino, è focalizzata sulla persona, ma perde il discorso generale: io sto male a Siracusa per cose che non dipendono da me. Ne sono succube”.

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