La realtà dell’alta cucina come la vedo io – di Luca Morelli

27 Maggio 2023
Comments off
946 Views

La realtà dell’alta cucina come la vedo io
Luca Morelli incontra lo chef Davide Ciampi
di Luca Morelli

Davide Ciampi, chef trentenne di Mattinata (Foggia), può vantare nel curriculum una notevole, e stellata, esperienza internazionale. Appena terminata la scuola alberghiera, la voglia di capire e conoscere nuove tecniche lo ha portato ad avventurarsi prima in Europa e poi in Asia, per finire, nel 2022, a Copenaghen che definisce la nuova “Mecca” gastronomica.
Molti potrebbero pensare, da questa breve descrizione, che il percorso del giovane pugliese sia iniziato, e contraddistinto, da una grande passione per la cucina.
In realtà, era la via più facile per guadagnare qualcosa da giovane. “In un paesino del sud Italia di seimila abitanti non si trovano ispirazioni, desideri, speranze. Io volevo giocare a calcio e basta. Alle superiori scelsi l’alberghiero per avere un mestiere, un piano B, e nel frattempo guadagnare qualcosa: l’hospitality è l’unico settore onesto che porta a far guadagnare qualcosa ad un ragazzo prima della maggiore età. Proprio raggiunti i 18 anni, capisco che il mio sogno di poter vivere giocando a calcio è irrealistico. Direi che fare cucina era la mia unica alternativa”.

Do you speak English? No? E allora a lavare i piatti.
Terminato il percorso scolastico, Davide va a lavorare a Milano, poi Sondrio, quindi Londra:
“Ho iniziato a lavorare al ristorante di mio zio a 15 anni. È stato un suo amico, un famoso chef del mio paese, ad indirizzarmi verso Londra. Avevo conoscenza ed esperienza, non potevo lavare i piatti! Ma senza inglese…”.
Così, decide di fare uno stage. Per un mese lavora al Dinner by Heston Blumenthal (due stelle Michelin), dove mette le preparazioni in sottovuoto o fa pulizie. “Non avevo imparato nulla, ma uscito da lì ottenni tantissimi colloqui.

Che non parlassi inglese non era più un problema. Ma io non mi sentivo ancora in grado, così decisi di fare un altro apprendistato. Finisco ancora in uno stellato, il Nerua di Bilbao. Dopo una mia ribellione in difesa di un collega maltrattato mi stavano quasi per cacciare. Invece, lo chef decide di mettermi in una cucina separata a cucinare per il personale. Lo staff era, chiaramente, di bocca buona, e proveniva da tutto il mondo. Così, chiesi a tutti, a turno, quale fossero i piatti più famosi del loro paese per poterli cucinare. Un giorno preparavo Tajine, l’altro Paella, e l’altro ancora Frikadeller (si, avevo un collega danese). È stata la mia svolta, stavo imparando le basi della cucina internazionale”.
Da lì in poi, Davide inizia a lavorare in diversi ristoranti premiati, almeno con una stella Michelin: commis e demi chef al Vila Joya in Portogallo, poi Austria, Maiorca, ancora Londra come chef De Partie da Nobu, quindi junior sous chef a Hotell Borgholm (Svezia). Poi il Gaa in Thailandia e L’Inua in Giappone.

L’illusione
Torna in Europa, ad Amburgo, dove lavora per Bianc, ed a Maggio 2022 per uno stage in Danimarca, al Noma: “Volevo lavorare nel miglior ristorante al mondo, dove ho potuto rubare con gli occhi seppur svolgendo mansioni molto semplici, anche non pagato!”
Quest’ultima frase mi lascia perplesso. Il meccanismo è lavorare gratis in cambio di un nome da inserire sul curriculum. “Anche solo sbucciare la frutta in uno stellato può aprire porte, ma molti ragazzi si sentono arrivati dopo tre mesi di lavoro. Loro sì che sono fregati. Io voglio uscire da questo mondo dove si lavora troppe ore e con eccessivo stress. È insostenibile”.
Questa parola, sostenibilità, ora è un tema caldo. Davide crede che, in cucina, la sostenibilità ambientale non esista:
“Noi cuochi abbiamo studiato per cucinare, non possiamo sapere con certezza cosa è ambientalmente sostenibile o meno. Per cucinare ho bisogno di burro, di accendere il forno, i fornelli, di ricevere spedizioni giornaliere, che il mio staff venga a lavoro in presenza. Come può essere sostenibile un ristorante? È un’ipocrisia, una trovata di marketing. Altri professionisti dovranno dirci come fare a rendere il tutto sostenibile. L’unica cosa che possiamo, e che dobbiamo fare, è rendere sostenibile la vita del personale: meno orari folli, meno sfruttamento, meno dispotismo. In Danimarca, rispetto ad altre nazioni, si fa più attenzione a questo tema”.
Davide ha tanta voglia di rivalsa, ha visto e subìto soprusi a lavoro, ma non vuole rendere “pan per focaccia”. “Una volta chiesi al mio capo di avere più ore libere per crearmi una vita al di fuori della cucina. Si mise a ridere a crepapelle”.
È la testimonianza di quanto sia falsa e tossica la narrazione di un’alta cucina che viene fatta da visionari e da lavoratori che vivono e vogliono vivere per quello, senza hobby, vita sociale o familiare. La cucina può trasformarsi in famiglia, ma anche in trincea. Non c’è spazio per essere semplici colleghi, come in altri lavori. Chi ne giova da questa visione?

Lo chef pugliese rimane con i piedi per terra:
“I miei nonni hanno fatto i veri sacrifici. Io posso stare comodo rispetto a loro.
La mia generazione si può permettere di poltrire un po’. Io, nel mio piccolo, sto facendo e ho fatto sacrifici, come lavorare gratis e moltissime ore a settimana. La speranza è che un giorno, non troppo lontano, potrò avere indietro tutto questo tempo e creare una famiglia, tornare nel mio paese forse, ed aprire un ristorante. Il mio più grande auspicio è di avere in 10/15 anni un po’ di serenità, una famiglia a cui dedicare tempo e non lavorare sempre. Perché alla fine della giornata, ciò che creiamo noi, è solo cibo. O no?”

Comments are closed.